Il voto a Napolitano nel nome della ricerca dell'unico accordo possibile
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di Giorgio Aimetti - 21 aprile 2013

La rielezione di Giorgio Napolitano rientrava nelle possibilità che si aprivano ai partiti dopo i primi giorni di voto e la gravissima crisi che ha colto il Pd. Solo la sua rinuncia, ribadita tante volte, aveva fatto pensare ad altri. Il voto molto ampio e con pochissimi franchi tiratori conferma che il presidente uscente godeva della giusta considerazione come capita sovente ai più stimati protagonisti della prima repubblica. Solo il ringhio di Beppe Grillo ha fatto da controcanto alle lodi rivolte al Capo dello Stato. E per il capopopolo genovese è stato un errore che ha un po’ guastato una condotta del gruppo 5 stelle che durante le prime votazioni per il Quirinale aveva attirato molti riconoscimenti positivi.

Francamente, la marcia su Roma dei suoi supporters e l’accusa di golpe rivolta al Parlamento perché ha votato contro la sua opinione, sembrano frutto di un atteggiamento da leader venezuelano più che da persona che si vuol candidare a cambiare in meglio il paese. Credo che la doppia rinuncia a parlare alla folla, da parte sua, non sia stata dovuta a un impedimento oggettivo, ma sia giunta solo dopo aver consultato un instant poll che credo abbia confermato la forte popolarità di cui gode Napolitano. Un uomo che unisce e non che divide, come sarebbe stato invece Rodotà che potrà così dedicarsi ai convegni sulla laicità e sugli interrogativi di quanto migliore sarebbe l’Italia senza Vaticano.

Ora la palla passa ai partiti che devono mostrare responsabilità. Potrà essere una breve stagione di riforme prima del voto, potrà essere qualcosa di meglio. Certo resta la brutta impressione destata dai parlamentari di prima legislatura dei quali sono piene le Camere. Fino a che punto i nuovisti abbiano ferito il Pd è difficile da valutare. La sensazione è che l’unità del partito sia a rischio per la difficoltà di trovare una linea politica condivisa.

Restano due considerazioni da fare. La prima riguarda gli ex comunisti che si sono trovati, come aderenti al partito di maggioranza relativa, a fronteggiare un voto presidenziale con problemi uguali o maggiori di quelli che la Dc aveva dovuto affrontare ai suoi tempi. Lo scudocrociato aveva saputo recuperare dopo le ripetute sconfitte dei suoi candidati (Sforza ai tempi di Einaudi, quelle di Leone e Fanfani più tardi). Si può dire che quelle sconfitte fossero la norma e non avevano causato crisi mortali nella Dc. L’impressione è che così non saranno le cose per il partito di Bersani che ha già perso per strada tutta la sua classe dirigente.

La seconda considerazione, è di rammarico. Franco Marini, al primo scrutinio aveva superato il numero di voti che gli avrebbe consentito di essere eletto già nel secondo giorno. Senso di responsabilità il suo, quello di ritirare la candidatura quando gli è stato chiesto di lasciar luogo a Prodi. Miopia del partito, quella di non aver compreso che in qualche modo, l’ex presidente del consiglio avrebbe raccolto tempesta dopo che i suoi supporters (da Bindi a Renzi) avevano seminato vento.

Resterà emblematica nella storia, credo, la vicenda di Marini presidente mancato per la insufficiente convinzione di chi lo aveva proposto. Per ora valgono le sue considerazioni nell’intervista rilasciata oggi all’Annunziata: il partito non ha classe dirigente all’altezza. I giovani parlamentari mancano di esperienza. La politica che Napolitano cercherà di agevolare non è diversa da quella che lui stesso avrebbe dovuto necessariamente assecondare. Un governo di intese per fare alcune riforme. Alternative, al momento, non ce ne sono.

 
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