Le letture di Carlo Donat-Cattin
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 Camillo Sbarbaro - Trucioli Eugenio Montale - La bufera Piero Janier - Ragazzo
L'Avvenire di giovedì 21 marzo (2013) ha pubblicato nelle pagine dedicate alla cultura un articolo di Alessandro Zaccuri dedicato alla ricerca svolta da Maria Pia Donat-Cattin sulle letture del padre Carlo dedicate alla poesia. Il testo di Zaccuri, intitolato "Il Caso. Montale e gli altri, i poeti amati da Donat-Cattin" propone così un'immagine pressochè inedita dell'uomo politico e dei suoi interessi letterari visti in uno squarcio familiare descritto con affetto dalla figlia. Crediamo di fare cosa utile e interessante riproponendo il testo del breve saggio.

Un uomo e i suoi libri
: la geografia poetica di Carlo Donat-Cattin
di Mariapia Donat-Cattin

In via Romagnano la biblioteca di mio padre occupava, fin da quando eravamo ragazzini, un lunghissimo corridoio e poi anche il suo studio. In quella biblioteca c’era di tutto. Nella libreria bianca che si estendeva fino all’ingresso i libri di narrativa italiana e straniera in ordine alfabetico, per autore; di lato e di fronte all’ingresso i libri per ragazzi.
Se un libro mancava il papà se ne accorgeva subito ed era capace di svegliarci di notte. Accendeva la luce del corridoio e diceva a voce alta: “Amelia, chi ha preso quel libro?”; e la mamma dalla sua camera rispondeva: “Carlo vieni a dormire, lascia stare i ragazzi. È notte”.
Io dormivo in una piccola stanza vicino alla porta di casa e l’arrivo di mio padre lo sentivo e lo vedevo subito. A me faceva piacere sentire il suo passo, la sua voce, quella luce nel corridoio: era tornato.
Nello studio, in fondo alla casa, si trovavano i libri di storia, di politica, di filosofia. E poi dappertutto libri di ogni genere e tanti, tantissimi libri di arte, di storia, di economia, di politica ma anche di cucina, di varia umanità.
Libri e quadri erano la sua passione ma all’inizio, almeno da quando ho memoria di persone e di luoghi, c’erano soltanto i libri. Non eravamo ricchi, però i libri ci sono sempre stati regolarmente regalati ai compleanni e all’Epifania. Tuttavia è stato sorprendente scoprire quali e quante raccolte di poesia possedesse mio padre. Sul suo comodino ce n’era sempre una, se non due, di Montale, ma non mi ero mai resa conto delle tante edizioni, spesso rare e raffinate, di poeti italiani e stranieri.
È attraverso quei libri, arrivati a casa mia a Roma qualche tempo dopo la morte della mamma, che mia figlia Elisa ha scoperto la sua passione per i poeti e per la poesia.

Quando fu ricoverato all’ospedale di Alessandria, nell’agosto del 1983, il papà mi confessò che, nelle lunghe ore di silenzio e di solitudine seguite al suo infarto, aveva ripassato in silenzio tutte le poesie imparate a memoria nella sua vita sin dalla primissima infanzia come La vispa Teresa, La mela ruggine e La partenza del crociato (più noto in famiglia come ‘Il Prode Anselmo’) di cui ho di recente ritrovato in casa un’edizione illustrata del 1944 che forse era stata sua o che forse ho scovato io da un rigattiere molto tempo fa. La nonna Marisa aveva insegnato anche a me quelle poesie. Ricordo solo pochi versi della Mela ruggine che, da bambina, mi venivano detti, in tono tra l’ironico e l’affettuoso, quando stavo per mettermi a piangere: “… disse ne vuoi un po’? … si mise a mordere finché non ce ne fu / poi si asciugò le lacrime/ così non pianse più”. Sicuramente tra le poesie che il papà provò a ripetere in quelle ore di angoscia dovute alla malattia ce n’erano molte di quelle presenti nell’antologia in due volumi Poesie studiate e imparate a memoria sui banchi di scuola di una volta pubblicata da Mursia nel 1979. Tra i nomi grandi: Foscolo, Leopardi, Manzoni, Carducci, Pascoli, D’Annunzio ma anche Giovanni Visconti Venosta (autore, appunto del nostro ‘Prode Anselmo’) e Angiolo Silvio Novaro (con Che dice la pioggerellina di marzo?).

La poesia, dunque, come medicina dell’anima e della mente. La poesia che salva la vita, che consola, che attutisce il dolore, che nutre e restituisce forza.
Quali sono gli autori più significativi di questa preziosa e rara sezione della biblioteca di Carlo Donat-Cattin? Tempo fa avevo redatto un elenco che risulta sempre incompleto perché di tanto in tanto vengono fuori altri libri mescolati tra i miei che erano stati suoi o che portano la firma del nonno Attilio. La selezione da me operata non rispecchia, se non in minima parte, l’insieme composito e organico di quei libri. È una scelta basata su elementi quantitativi come su indizi, in qualche raro caso anche su ricordi personali, che segnalano gusti e interessi di un uomo che non aveva mai abbandonato le sue passioni giovanili. La politica e la poesia. Perché no? La poesia e la politica. Il nucleo più interessante e compatto della sezione è costituito dai poeti italiani del Novecento, in testa a tutti Eugenio Montale. I libri di Montale a me pervenuti, sicuramente i più amati e i più letti da Carlo fin dalla giovinezza, sono in tutto dieci; qualcosa purtroppo è andato disperso. Non ho ritrovato né l’edizione gobettiana di Ossi di seppia, acquistata a Torino per due lire su una bancarella quando era molto giovane così come lui stesso racconta a Enzo Siciliano in un’intervista comparsa su “La Stampa” nel 1972; né un testo di cui non ricordo con precisione il titolo,  – sicuramente uno degli ultimi lavori del poeta, forse addirittura Satura o Diario del ’71 e del ’72 – con una bella dedica che avevo tenuto tra le mani un’estate di parecchi anni fa a Finale. Tra questi dieci volumi segnalo un’edizione prima, Neri Pozza 1956, della Bufera e altro: un libro che si apre significativamente con “La Bufera” (il testo che darà il titolo alla raccolta) e che si chiude con “Il sogno del prigioniero”. Una ‘virgola’ a pagina 79 mi porta a trascrivere una poesia che forse colpì più di altre quel lettore ondivago, attento e perseverante che era mio padre.

Siria
Dicevano gli antichi che la poesia
è scala a Dio. Forse non è così
se mi leggi. Ma il giorno io lo seppi
che ritrovai per te la voce, sciolto
in un gregge di nuvoli e di capre
dirompenti da un greppo a brucar bave
di pruno e di falasco, e i volti scarni
della luna e del sole si fondevano,
il motore era guasto ed una freccia
di sangue su un macigno segnalava
la via di Aleppo.

Non è semplice provare a dire le ragioni di questa predilezione. In primis il paesaggio ligure, quello di una Liguria scabra, essenziale e ventosa, presente soprattutto negli Ossi di seppia, doveva avergli fatto sentire una forte consonanza.

Tramontana
Ed ora sono spariti  i circoli d’ansia
che discorrevano il lago del cuore
quel friggere vasto della materia
che discolora e muore.
Oggi una volontà di ferro spazza l'aria,
divelle gli arbusti, strapazza i palmizi
e nel mare compresso scava
grandi solchi crestati di bava.
Ogni forma si squassa nel subbuglio
degli elementi; è un urlo solo, un muglio
di scerpate esistenze: tutto schianta
l'ora che passa: viaggiano la cupola del cielo
non sai se foglie o uccelli  - e non son più.
E tu che tutta ti scrolli fra i tonfi
dei venti disfrenati
e stringi a te i bracci gonfi
di fiori non ancora nati;
come senti nemici
gli spiriti che la convulsa terra
sorvolano a sciami,
mia vita sottile, e come ami
oggi le tue radici.
(Ossi di seppia in L’opera in versi, p.69)

Tuttavia, questo non può bastare. C’era dell’altro. Un dato forse era dovuto allo stile e al carattere di Eugenio Montale: la sua ritrosia e il suo understatement di certo dovevano essere piaciuti a Carlo. Ma credo, soprattutto, e qui azzardo un’ipotesi, una visione del mondo e un modo di vivere il proprio tempo che sentiva vicino al suo.

La mia arte poetica è stata sempre la assidua registrazione di vivere “nel nostro tempo”: un tempo che a noi oggi viventi sembra diverso da ogni altro, ed è forse un’illusione perché tempi facili non credo siano mai esistiti. Al tempo cronologico non mi sono mai del tutto rassegnato; ed è questa congenita diffidenza che mi ha tenuto lontano da ogni integrale storicismo, materialista o dialettico che sia. Se non credo all’assolutezza del tempo ho invece una fede incrollabile nelle fasi che regolano la vita dell’umanità secondo un ritmo, un decorso che sfugge tanto ai filosofi metafisici quanto ai dogmatici di qualsiasi religione. (E. Montale, Nel nostro tempo, Milano 1972, pp.7-8).

Una posizione di privilegio spetta a un altro poeta ligure, Camillo Sbarbaro, per quell’amore speciale che legava Carlo al paese in cui era nato  – “Il paese ciù bellu du mundu” come diceva spesso per difendere la scelta di passare tutte le estati nella sua Liguria. L’edizione mondadoriana di Trucioli 1914-1918, – frammenti di prosa poetica  – , del poeta di Santa Margherita Ligure risale al 1948. Sbarbaro, però, visse a lungo a Spotorno, cui dedica queste parole : “Spotorno, terra avara. Vi imbianca l’olivo, il sorbo vi si carica di mazzetti duri […] paesaggio dell’anima; cielo che a guardarsi si beve” (pp. 25-26). E, poco più avanti (p.38), a proposito di Noli  – dove sono stata spesso con il papà arrivandoci talvolta attraverso le Manie – Sbarbaro scrive, quasi a interpretare un desiderio che forse era anche di Carlo, “Mi sovviene il muretto sopra Noli dove indugiai un pomeriggio a prendere il sole. Il mare non s’udiva. Sulla spiaggia i pescatori rammendavano le reti. Mi pareva dolce finire la vita in una di quelle casette screpolate.” (p.38). Accanto a Trucioli si trova l’edizione critica, a cura di Giampiero Costa, di Resine, Libri Scheiwiller, Milano 1988; libro prezioso e raffinato. I versi di Resine, ricorda il poeta stesso, “risalgono al tempo del ginnasio e della prima liceo. Non li scrivevo; li ruminavo nelle lunghe passeggiate solitarie che da ragazzo avevo l’abitudine di fare […]. Il mio primo atto di nascita come poeta, il primo vagito, deve ancora trovarsi in qualche casa a Savona, dove finì in occasione d’un trasloco.” (pp. 11-12). E qui ritroviamo un piccolo segno a pagina 88 in una poesia intitolata L’ulivo, elemento fondamentale del paesaggio ligure e albero religioso per eccellenza.

O religioso ulivo, che se il vento
ti rovescia le fronde, trascolori
e di minuti lattescenti fiori
semini il suolo e ‘l suo tronco d’argento.

Ci sono poi dei libri la cui data sorprende e colpisce insieme. Primo fra tutti Lirici greci di Salvatore Quasimodo. Un’edizione con una fondamentale Introduzione di Luciano Anceschi seguita da una Nota che accenna ai tempi tragici in cui il libro venne pubblicato: “Non posso licenziare questo mio scritto senza ricordare un saggio, incompiuto e bellissimo, Intorno al modo di leggere i Greci, in cui Serra, con quei suoi modi del tutto amabili […] veniva a insinuare molte questioni sul tradurre [...] le sue osservazioni […] spesso ci confortano e ci aiutano: per un’immagine nuova della Grecia, che vada al di là delle estenuazioni classicistiche, ma anche delle inquietudini barbariche di uomini privi dei limiti civili di una buona eloquenza e educazione” .

Un libro, quello di Quasimodo, acquistato e letto dal giovane Carlo che lo accompagnerà nella temperie tragica della guerra. Testimonianza indiretta di quell’attraversamento di mezza Italia, da Montefiascone a Torino, compiuto all’indomani dell’8 settembre:

Se tu sapessi ciò che è da temere,
il tuo piccolo orecchio, sveglieresti alla mia voce.
Ma io prego: tu riposa, o figlio, e quiete
abbia il mare; ed il male senza fine, riposi.
(dal Lamento di Danae di Simonide, p.181)


Anche tu Cleanoride
cadesti per amore della patria,
tu che sempre affrontavi le tempeste
ai venti invernali. Nell’età che ancora
è senza dolcezze di donna, morivi, chiusero
le onde del mare la tua adolescenza.
(Epigramma 102 di Anacreonte, p.137).

Mi sono chiesta, quindi, che cosa mio padre avesse potuto leggere durante la guerra. E la mia attenzione è caduta su due libri: un testo autobiografico e un romanzo. Il primo, Ragazzo e prime poesie di Pietro Jahier, che risale a quando era sottotenente dei granatieri a Montefiascone, porta sul frontespizio la sua firma con la data “Roma, luglio 1943”. Il secondo, La pietra lunare di Tommaso Landolfi, sull’ultima pagina ha stampato il timbro della Biblioteca del Dopolavoro aziendale Olivetti e risale al periodo della guerra successivo all’8 settembre, quando Carlo entrò a far parte della Resistenza e lavorò prima come operaio poi come professore all’Olivetti di Ivrea. Un atto mancato, la restituzione di quel libro, che parla da solo.

La vita attiva, fatta di impegno civile, sociale, sindacale e politico non impediva, anzi richiedeva, necessitava persino di un rapporto con la parola poetica e con certi poeti non come forma di evasione ma di immersione e rispecchiamento, come fonte di nutrimento e di energia vitale e spirituale.

La predilezione per un poeta dalla “fede ardente” come Clemente Rebora testimonia proprio questo bisogno di silenzio, di concentrazione spirituale. Fra le pagine di Le poesie 1913-1957, a cura di Vanni Scheiwiller, All’Insegna Del Pesce d’Oro, Milano 1961 ho trovato la pagina che il “Popolo” dedicò il 5 gennaio 1958 al poeta cattolico in occasione della morte. Ma più di tutto mi ha colpito un segno a pagina 249 in cima a un testo senza titolo.

La poesia è un miele che il poeta,
che in casta cera e cella di rinuncia,
per sé si fa e pei fratelli in via,
e senza tregua l’armonia annuncia
mentre discorde sputa amaro il mondo.
[…]
L’ultime cose accoglie perché sian prime;
nèttare, dolorando, dolce esprime,
che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
Così porta bontà verso le cime,
onde in bellezza ognun scorga la mèta
che il Signor serba a chi fallendo asseta.

Una particolare attenzione va dedicata a Carlo Betocchi, una delle voci più alte del Novecento poetico italiano. La presenza di questo poeta nella biblioteca di mio padre non deve stupire. Betocchi fu insieme costruttore di poesia e costruttore di strade, case, canali, ponti, dighe. Un uomo e un intellettuale, come l’aveva definito Carlo Bo, non facilmente collocabile all’interno di qualsivoglia corrente letteraria o scuola di pensiero e proprio per questo “interamente poeta”.

Nell’Introduzione a Prime e ultimissime, - la raccolta poetica uscita nello Specchio Mondadori come le precedenti L’Estate di san Martino (1961) e Un passo, un altro passo (1967) - è sempre Bo a scrivere con fine acutezza: “il passante, il camminante Betocchi appartiene soltanto al vento della poesia e alle sue voci […] quando lo rivediamo ci capita quasi inavvertitamente di guardarlo con quell’antica gratitudine del cuore che ci aveva acceso dentro, al tempo delle prime poesie, insomma con quel sentimento antichissimo di aver ricevuto direttamente, per virtù di natura, la luce della poesia”. Una luce cui mio padre deve avere attinto più e più volte. Come testimoniano le sottolineature della poesia che trascrivo integralmente qui di seguito.

Al figliolo
Ritorniamo sulle vie antiche,
ricalchiamo i passi qui, dove
con furore innocente corse
l’infanzia fra i tronchi alle rive,
amorosa di sassi, sulla
terra fulva: perpetuo mòdulo
la sera ritorna alla culla
del mondo, ed anima l’“a solo”
della creatura, e ignoto è il fine
che lo ripercuote lontano
da una medesima mano
sui profili delle colline:
ciò che ci unisce e ci divide
scoscesi su una impervia età,
padri e figliolo, senza fine….
Ora la luna sorgerà,
quale pace attendiamo? Fonte
di una luce che la precede,
come da lei sospinti, il piede
movendo da ciechi pel monte
che ci copre d’ombra, soltanto
vivi di quel che ci separa
ed unisce, andremo anelando
vicini, vòlti a quell’aurora.
(Prime e ultimissime, pp.143-4)

Forse questo, il papà avrebbe voluto e non è riuscito a dire a uno dei suoi figli. O forse, semplicemente, in questi versi ha cercato e finalmente trovato un po’ di quella ‘luce’.
Due vite diverse appaiono così solidali in quel “dono dell’anima” che aveva consentito a entrambi di “prendere coscienza del male e non assecondarne il moto di distruzione e di violenza” (Bo, Introd. p.16).
La particolare attenzione di Carlo Donat-Cattin per la poesia italiana del Novecento emerge con chiarezza anche dalla presenza nella sua biblioteca di numerose antologie. Due si impongono fra tutte: l’Antologia della poesia italiana (1909-1949) e Poesia italiana contemporanea (1909-1959), uscite rispettivamente nel 1949 e nel 1959 per i tipi di Guanda, in una collana diretta da Attilio Bertolucci.
Numerose sono poi le raccolte di poeti stranieri del Novecento: Rafael Alberti, Federico Garcìa Lorca (tradotto e curato da Carlo Bo),  J. R. Jiménez, T. S. Eliot, André Frénaud (nella traduzione di Giorgio Caproni), Pierre Reverdy (nella versione di Antonio Porta), Marianne Moore e W. C. Williams (tradotto da Cristina Campo e Vittorio Sereni).

C’è dell’altro. Questo grande lettore di poesia, aveva, durante la sua gioventù, scritto poesie. Poesie d’amore. La mamma le ha volute con sé, insieme alle lettere a lei indirizzate, ai biglietti che accompagnavano le rose rosse che immancabilmente il papà le regalava l’11 luglio, giorno del loro matrimonio: una per ogni anno. Un piccolissimo nucleo però le è sfuggito e io l’ho ritrovato. A lungo per rispettare la volontà della mamma non ho aperto il fascicoletto che lei aveva intestato così: “Poesie di Carlo ad Amelia Millino” dentro il quale aveva conservato alcuni fogli. Il primo  porta in testa la scritta sottolineata “L’ombra della felicità” e in fondo la data “settembre 1939”. L’11 luglio del 1943 Carlo, a soli ventitré anni, avrebbe sposato Amelia, la “fanciulla del sogno” di cui quelle righe parlano. Varcata la soglia, compiuto l’atto di disubbidienza, ho scoperto, leggendo quelle pagine, che si tratta di prosa poetica, pensieri, qua e là qualche verso, una sorta di testo prosodico più o meno consapevole. Non riporto altro perché non vorrei che la mamma, gelosa delle parole a lei riservate, se ne avesse a male. Per lei erano poesie: “Poesie di Carlo ad Amelia Millino”, il modo in cui il papà la chiamava quando le voleva più bene, come disse una volta a Marta, la mia primogenita, che le chiedeva il perché di quel nomignolo.

Quasi tutti i giovani delle vecchie generazioni hanno scritto poesie o hanno creduto di scriverle ma non sono molti quelli che, impegnati in una vita attiva e frenetica, hanno continuato a leggere poesia. Mio padre lo faceva.

Non bisognerebbe mai smembrare una biblioteca, in certe situazioni ci comportiamo tutti come “figli unici” e i libri per me come per i miei fratelli hanno rappresentato, più di ogni altra cosa, nostro padre e così ognuno di noi ha voluto una parte dei suoi libri, la narrativa Claudio, i libri per i ragazzi Paolo, la poesia io, anche se la parte quantitativamente più rilevante è andata alla Fondazione a lui dedicata. Tuttavia non sempre una simile decisione, si rivela, a distanza di tempo, una decisione sbagliata. Se quei libri non fossero entrati nella mia casa romana non mi sarei mai resa conto di quale raffinato e profondo lettore di poesia fosse stato mio padre. E non avrei avuto il dono prezioso di conoscerlo meglio. I suoi libri, in particolare questi libri rappresentano per noi figli e nipoti un dono inaspettato e un modo per riscoprirlo.