Papa Francesco


Papa Francesco a Lampedusa. “No” alla globalizzazione dell’indifferenza PDF Stampa E-mail


di Ferdinando Russo - 15 luglio 2013


Lo aveva preannunciato il Papa, al momento della sua elezione, ed ora ha portato a Lampedusa, nei giorni in cui ha proclamato la sua prima enciclica la Lumen Fidei, la testimonianza della Fede della Chiesa cattolica, che è amore verso i più derelitti, i disperati, gli immigrati, i poveri bisognosi del Sud, che si affacciano, talvolta con le famiglie, rischiando la morte nel mare, verso i paesi dell’Occidente Europeo, così accattivante, attraverso l’etere con i segni ed i colori del benessere, dell’opulenza e dello spreco.

Il vescovo di Roma, dalle origini lontane legate all’emigrazione, è venuto all’estremità sud dell’Europa a chiedere perdono agli immigrati, restituendo dignità ai ventimila morti in mare, sulle coste della Sicilia, alle famiglie che li piangono senza il conforto di una tomba, che non sia la coltre del mediterraneo, solcato con la speranza di un lavoro, per molti, senza ritorno.

Questo nuovo Papa, si è fatto subito amare per il nome scelto, per l’evocazione della terra della sua origine, ove i figli degli emigranti italiani sono cresciuti nella fede dei padri e nelle responsabilità della Chiesa, con e per i poveri di tutte le nazioni, annunciando il Vangelo ed operando per la pace e lo sviluppo, predicato dalle Encicliche dei santi predecessori.

Ora ha portato a Lampedusa, come nella saccoccia dei profeti, la nuova Enciclica, testimoniando, di persona, la Fede, con il suo camminare verso l’altro, per  accoglierlo, per abbracciarlo, per comprenderlo nella cultura, nella religione professata, nei bisogni.

Si conferma così la continuità con le Encicliche di Benedetto XVI, di cui ha voluto accogliere l’eredità e che convive con Francesco, quasi a guidarlo nel difficile cammino della storia umana, più unificata nelle relazioni finanziarie, commerciali, culturali, tecniche e nelle comunicazioni, ma non sempre nei valori della solidarietà e del rispetto di ogni persona, popolo, continente.

Nell’omelia Papa Francesco, pronuncia a Lampedusa, il suo sofferto coraggioso “no” alla globalizzazione dell’indifferenza, al benessere che causa l’anestesia del cuore, quasi a volere scuotere le coscienze d’Europa e dei diversi Governi, la cui gestione delle nazioni è certamente diversa dalla preghiera, come critici superficiali osserveranno, ma che diventa viziata dai ricorrenti, perniciosi, egoismi, imperanti senza la fede nell’unità dell’umanità.

E rivolgendosi ai cristiani, chiamati ad  annunciare  la fede, per la reciprocità dell’impegno e del servizio, mostrato e sollecitato verso tutti gli immigrati, al vescovo siciliano presente, Franco Montenegro, al parroco dell’isola, ai sacerdoti, ai religiosi, ai laici battezzati della sua Chiesa, dice che non si è “misericordiosi se ci si rinchiude nell’indifferenza” o si respingono i bisogni spirituali ed economici, esistenziali di tanta parte della società contemporanea, anche nelle periferie dei paesi dell’opulenza e del “benessere dei pochi” dell’Occidente.

E, con l’amore, proclamato dalla Lumen Fidei e che non ha confini, Francesco, senza imporne i contenuti, se non come servizio, nella dimensione cattolica rivolta a tutti, ha parlato ai siciliani ed agli immigrati  musulmani e degli altri paesi dell’Africa.

Li ha apostrofati con il saluto espressione di tutto il mediterraneo “O’scià", espressione abbreviata dal dialetto siciliano “O’ sciatu” (come sta), mio fiato, mio respiro, mia vita, il saluto dei marinai che tornano a casa e che in Sicilia diviene saluto comprensibile, plurilingue, delle mamme, delle mogli, dei padri, dopo il lavoro lontano tra l’Africa e l’Europa.

E la comunità islamica ha colto con entusiasmo e riconoscenza le parole ed il gesto storico del Papa verso gli immigrati ed i musulmani per l’apertura al confronto, al dialogo interreligioso ed alla tolleranza.

“Grazie alla sua connessione con l’amore, la luce della fede”, è scritto nell’Enciclica, di cui parla, quasi per la prima volta al popolo della mobilità, si pone infatti al servizio concreto della giustizia,del diritto e della pace.

Papa Francesco ha comunicato, nella discrezione e nella semplicità di un viaggio per pregare i morti della mobilità, per chiedere perdono per l’anestesia del cuore, il suo messaggio di fede come servizio, di tolleranza e fratellanza, messaggio atteso ed  accolto anche come una liberazione dal timore di pregare Iddio in altre chiese, con altri accenni, fuori dalla comunità cristiana,ma vicini nella fede in Dio.   

Quasi il segno preconizzante un Pontificato, la sua Lumen Fidei, invita a superare i conflitti religiosi, economici, nazionali, operando sui conflitti, per risolverli, per trasformarli “in un anello di una catena, in uno sviluppo verso l’unità”.

E alla Sicilia, grata per la prima visita del Pontificato, come hanno sottolineato il Cardinale Romeo ed i Vescovi delle diocesi marinare, ha riconosciuto e ridato il ruolo storico e sofferto di una terra di immigrati ed emigrati, nell’odierno tempo della mobilità mondiale, un ruolo antico e generoso, nell’area mediterranea, per scambi di cultura, di vita, di rispettosi dialoghi religiosi, attraverso l’accoglienza solidale degli immigrati e una pacifica convivenza.
Alla politca, talvolta indifferente e disattenta alle povertà ed ai bisogni materiali e spirituali dei popoli, dalle Primavere incompiute dei vicini paesi mediterranei ribollenti di trasformazioni e di contrasti interni,  pur richiamando, ancora recentemente, i giovani a prenderne parte per il bene comune, ha additato, con la sua discrezione, con l’umile testimonianza e con la Lumen Fidei, nell’isola estrema dell’Europa, fuori dai rituali, il traguardo di una grande missione della Chiesa cattolica di giustizia e fratellanza universale.

 
Lumen fidei. La fede al centro dell'enciclica di Papa Francesco e Benedetto XVI PDF Stampa E-mail

di Luca Rolandi - 6 luglio 2013

La lettura della prima enciclica di papa Francesco, Lumen Fidei, pubblicata il 29 giugno e resa pubblica il 5 luglio, è il filo rosso che lega la storia della Chiesa degli ultimi cinque mesi. Il testo, come ha spiegato lo stesso pontefice durante un incontro con il Sinodo dei vescovi, è di fatto frutto di un lavoro “a quattro mani”: Benedetto XVI aveva praticamente completato il testo prima delle sue dimissioni lo scorso 28 febbraio, e ha consegnato quanto aveva fatto al suo successore, che lo  ha rivisto, integrato e lo ha fatto suo mettendoci la propria firma.

Sfogliandone le pagine, però, risulta evidente che nel testo – un testo relativamente breve, 91 pagine per 58 paragrafi – la mano prevalente è quella papa emerito. E non solo perché l'enciclica sulla fede conclude il trittico sulle virtù teologali iniziato con Deus Caritas Est sulla carità e proseguito con Spe Salvi sulla speranza. L'impianto del testo, i frequenti rimandi a filosofi e dibattiti vivi nella cultura tedesca degli anni '60, l'insistere su alcuni temi, persino il paragone tra la fede e le cattedrali gotiche, dove “la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra”: tutto testimonia come papa Francesco abbia fondamentalmente deciso di rispettare e accogliere il lavoro del suo predecessore. Francesco lo dice esplicitamente al paragrafo 7 dell'enciclica: “Queste considerazioni sulla fede - in continuità con tutto quello che il Magistero della Chiesa ha pronunciato circa questa virtù teologale - intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi”.

Il titolo dell'enciclica, Lumen Fidei, “La luce della fede”, riassume la dinamica fondamentale lungo cui si muove il testo: la tradizione della Chiesa ha sempre associato la fede alla luce che disperde le tenebre e illumina il cammino; ma nella modernità la fede “ha finito per essere associata al buio”, è diventata sinonimo di oscurantismo: “Si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere”. Il testo cita Nietzsche, uno dei punti di riferimento costanti - anche se naturalmente in negativo - del pensiero di Ratzinger, per il quale “il credere si opporrebbe al cercare”.

La strada per la riscoperta del carattere 'luminoso' della fede passa, naturalmente, dall'incontro con Cristo e con il suo amore: “Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro”.

Dopo l'introduzione, l'enciclica in quattro capitoli ripercorre la storia della fede cristiana, dalla chiamata di Abramo e del popolo di Israele fino alla risurrezione di Gesù e alla diffusione della Chiesa (Capitolo 1, “Abbiamo creduto all'amore”), il rapporto tra fede e ragione (Capitolo 2, “Se non crederete, non comprenderete”), il ruolo della Chiesa nella trasmissione della fede nella storia (Capitolo 3, “Vi trasmetto quello che ho ricevuto) e infine quel che la fede opera nella costruzione di società che mirano al bene comune (Capitolo 4, “Dio prepara per loro una città”). “Lumen Fidei” si conclude con una preghiera alla Madonna, modello di fede. I due papi ricordano che la fede “ci apre il cammino e accompagna i nostri passi nella storia”.

Per capire che cosa è la fede è necessario quindi “raccontare il suo percorso, la via degli uomini credenti, testimoniata in primo luogo nell’Antico Testamento”. La fede, infatti, affonda sì le radici nel passato ma è nello stesso tempo “memoria futuri”, memoria del futuro, e per questo è “strettamente legata alla speranza”. È un tema che ritorna anche nella conclusione dell'enciclica, in uno dei passi in cui è forse possibile riscontrare più evidente la collaborazione dei due pontefici. È infatti la speranza, “nell’unità con la fede e la carità”, a collocare l'uomo in una prospettiva diversa rispetto alle “proposte illusorie degli idoli del mondo”, donando “nuovo slancio e nuova forza” alla vita di ogni giorno. Il punto di incontro tra fede e speranza è soprattutto la sofferenza: “La fede è congiunta alla speranza perché, anche se la nostra dimora quaggiù si va distruggendo, c’è una dimora eterna che Dio ha ormai inaugurato in Cristo, nel suo corpo”. Di qui l'appello agli uomini affinché non si lascino “rubare la speranza”. Infine, la fede è un “bene comune” che non allontana il credente dal mondo ma lo pone “al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace”: “Essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza”. Grazie ad essa le famiglie scoprono la forza e i motivi di rimanere assieme “per sempre” e giovani, in eventi come le Gmg, assaporano il desiderio di una “vita grande”. La fede, infatti, “non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita”.

 
La comunione dei vescovi e del popolo nuova forma dell'universalità della Chiesa PDF Stampa E-mail

di Luca Rolandi - 14 marzo 2014

Jorge Bergoglio è il primo gesuita diventato vescovo di Roma, il primo proveniente dall'America latina, da quello che veniva definito Terzo mondo e anche il primo ad aver scelto come nome Francesco, nome senza dubbio significativo di un progetto fatto di stile e programma emersi fin dalle prime parole che ha rivolto alla immensa folla raccolta in piazza san Pietro. "Fratelli e sorelle, buona sera, voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma, mi sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo, ma siamo qui, e vorrei ringraziare l'accoglienza della comunità diocesana di Roma e prima di tutto vorrei fare una preghiera per il nostro vescovo emerito Benedetto XVI. Preghiamo perché il Signore lo custodisca". Ha quindi recitato un Padre Nostro, una Ave Maria e un Gloria. "E adesso, incominciamo questo cammino: vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l'uno per l'altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa, che oggi incominciamo e nel quale mi aiuterà il mio cardinale vicario, qui presente, sia fruttuoso per l'evangelizzazione di questa città tanto bella! E adesso vorrei dare la benedizione, ma prima - prima, vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi pregate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo che chiede la benedizione per il suo vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me".

Descritto soprattutto come un pastore, molto attento a coloro che sono in difficoltà di ogni tipo, egli stesso conduce una vita che rifugge da ogni "mondanità" e non è stato raro incontrarlo sui bus della capitale argentina. Il successore di Benedetto XVI è anche colui che, nel Conclave del 2005, ne fu l'unico vero contendente. Racconti non si sa quanto fondati dicono che, in quella occasione, chiese a coloro che lo votavano, di non pensare a lui.

La Chiesa, oggi, è ancora l'unica realtà umana che sa stupirci ed entusiasmarci. È innegabile che il soffio dello Spirito abbia aleggiato su piazza San Pietro, e per un attimo, quel gabbiano posato sul comignolo proprio durante i minuti dell'elezione, ci ha fatto pensare che qualcuno, lassù, ci stava guardando.

Francesco. Come mai nessuno aveva mai osato chiamarsi. Perché a questo punto non conta più se Francesco è un religioso gesuita, se è stato nel 2005 il candidato progressista opposto a Ratzinger proposto dal cardinale Martini. Non conta. Forse conta solo una cosa: la sua sobrietà e povertà conosciuta dal suo popolo sarà la pietra angolare della Chiesa del futuro. Non conta che non ha mai avuto la macchina blu e autista, che va in metropolitana a Buenos Aires, che a Roma ha sempre preso i bus, che ha vissuto sempre in un appartamento modestissimo. Conta che ha chiesto al popolo di pregare per lui, vescovo di Roma, e il popolo - centomila persone presenti a piazza San Pietro - si è fermato. E si è messo a pregare, in un silenzio impressionante.

 
Un conclave aperto per eleggere il nuovo Papa PDF Stampa E-mail

di Luca Rolandi - 11 marzo 2013

Si apre il Conclave. Esattamente un mese dopo le clamorose dimissioni di Benedetto XVI, domani ci sarà l’extra omnes. Le dimissioni di papa Ratzinger hanno creato un vulnus all’interno del potere romanocentrico. Nulla è più come prima. L’immagine di una Chiesa divisa da scandali e manovre di potere ha varcato il portone di San Pietro e, se ciò ancora non è ben chiaro ai curiali italiani troppo indaffarati a difendere posizioni, status e un briciolo di potere che si squaglierà come neve al sole ben presto, al contrario è bene evidente a tutti quei porporati e uomini di Chiesa che non hanno frequenza con le stanze segrete d’oltretevere e che vivono e operano la loro carità cristiana lontani migliaia di chilometri da Roma.

Le dimissioni hanno sgretolato regole antiche, messo in discussione burocrazie e leggi non scritte. Hanno ridisegnato, insomma, la mappa di un cristianesimo più vicino all’uomo che non alle banche e ai governi. Ma non basta questo per dire che il Conclave che sta per cominciare chiude un epoca, quella del post-Concilio, che ha avuto nei pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i due interpreti maggiori: con grandi slanci profetici e molte crisi e sfide ancora in corso. Significativamente il cardinale e arcivescovo di Lione Barbarin ha detto: “La volta scorsa c’era una figura di spessore, molto superiore di tre o quattro volte al resto dei cardinali. Era un teologo unico. E stiamo parlando di Joseph Ratzinger. Ora non è così. Quindi la scelta deve essere realizzata su uno, due, tre quattro... dodici candidati. Finora non sappiamo proprio nulla, dovremo aspettare almeno i risultati del primo turno”. Non sarà dunque facile per i 115 porporati scegliere il successore di Ratzinger e il santo padre che guiderà la chiesa cattolica nei prossimi anni. Chi sarà dunque il 266° successore di Pietro? Domani nella Sistina blindata, un buon numero di voti - c’è chi parla di 35, chi dice 40 - dovrebbe andare all’arcivescovo di Milano Angelo Scola.

Votato inizialmente da diversi porporati europei e da qualche statunitense, il cardinale ambrosiano potrebbe riportare all’Italia il papato trentacinque anni dopo l’elezione di Giovanni Paolo I. Un altro candidato che dovrebbe coagulare attorno a sé dei consensi è l’arcivescovo di San Paolo Odilo Pedro Scherer, brasiliano con lunga esperienza di curia. Le indiscrezioni della vigilia, ovviamente da prendere col beneficio d’inventario, gli assegnano circa 25 voti. Un terzo candidato che potrebbe risultare segnalato fin dall’inizio è il canadese Marc Ouellet, il Prefetto della Congregazione dei vescovi, sul quale potrebbero convergere dei voti dall’America Latina e dagli Stati Uniti, si pensa circa una dozzina.

Se sarà fumata nera i giorni cruciali saranno mercoledì o giovedì a quel punto potrebbe emergere il terzo ratzingeriano di ferro: il cardinale di Vienna Schonborn, uomo di grandi visioni e profondissima fede, oppure un latino americano o un africano, con l’outsider che sarebbe il Wojtyla del 2013, quel Loius Tagle, filippino che potrebbe cambiare il volto della chiesa in maniera profondissima.

 
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