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NOI RAGAZZI DEL '99
A cent'anni da Caporetto

di Gabriele Druetta - 13 novembre 2017

Il Piave mormorava / Calmo e placido al passaggio / Dei primi fanti, il ventiquattro maggio: / l'Esercito marciava / per raggiungere la frontiera, / per far contro il nemico una barriera… […] Ma in una notte trista si parlò di tradimento, / e il Piave udiva l'ira e lo sgomento… / Ahi, quanta gente ha vista / Venir giù, lasciare il tetto, / per l'onta consumata a Caporetto! […] -  [La leggenda del Piave, Ermete Giovanni Gaeta, 1918]

24 ottobre 1917. L’esercito austroungarico sfonda il fronte presso Caporetto (oggi parte della Slovenia) facendo arretrare di cento chilometri il fronte italiano fino al Piave. Le conseguenze sono disastrose: 12.000 morti, 30.000 feriti e 300.000 prigionieri. L’Italia perde gran parte delle terre conquistate in tre anni di guerra. La disfatta è completa; il morale dei soldati è a terra, la classe politica viene colta impreparata e l’Italia si prepara ad essere invasa dal nemico.

Il Regno si trova a dover rimettere in piedi un esercito ormai stanco e senza speranze. Per questo scopo, dopo la disfatta di Caporetto vengono chiamati alle armi gli uomini, con lo slogan “la terra ai contadini”, e i ragazzi appena diciottenni, passati alla storia come i ragazzi del ’99, gli ultimi coscritti negli elenchi di leva.

Presi dalle scuole, dai campi e dalle famiglie, i ragazzi nati nel 1899 vengono mandati al fronte per rinforzare le file del Piave, del Grappa e del Montello. Questi ragazzi sono il simbolo di una nazione in ginocchio, costretta a mettere in campo la sua gioventù migliore, le sue ultime forze, nella speranza di riscattarsi e di vincere la guerra.

Impreparati e sprezzanti del pericolo, partono per il fronte cantando, abbracciano la guerra come se fosse «un’avventura, vivendola poi come una tragedia» [prof. Gianni Oliva].

1917-2017. Sono passati cento anni. Sono un moderno ragazzo del ’99, ma conosco la guerra solo dietro ad uno schermo. Cento anni fa avrei vissuto anche io gli orrori del fronte e, se non fossi morto, mi sarei ritrovato anche nelle fila della Seconda Guerra Mondiale (1939 – 1945).

Grazie a quei miei “coetanei” l’Italia vinse la guerra (almeno ufficialmente) e i ragazzi del ’99 da allora restarono e resteranno per sempre il simbolo della rivincita. Così vennero elogiati dal generale Diaz: «I giovani soldati della classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico. […] Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora.» [generale Armando Diaz, Ordine del giorno, 18 novembre 1917]

Cent’anni fa anch’io sarei partito con l’incoscienza tipica della mia età, avrei cantato insieme ai miei compagni, avrei lottato per la mia patria. Quel coraggio però mi sarebbe mancato. Una settimana dopo avrei smesso di cantare, perché è vero che «la Guerra è bella anche se fa male» [Francesco De Gregori, Generale, 1978], ma morire fa pur sempre paura, perché la morte non guarda in faccia nessuno, nemmeno chi ha diciottanni e non è ancora un uomo.