Presidenza della Repubblica. Il peso delle incertezze della nuova politica
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di Giorgio Aimetti - 17 aprile 2013

Si è alla stretta finale per l’elezione del nuovo capo dello Stato. E domina l’incertezza sul candidato più forte, insieme con la constatazione che il nuovo parlamento sarà alle prese con una eccezionale ventata di populismo determinata dalla incapacità delle forze politiche che hanno collegamenti con le storiche tendenze presenti nel paese a dar vita o comunque a intercettare il malcontento dei cittadini causato dalla crisi.

L’elezione del presidente della Repubblica Venezuelana ha preceduto di qualche giorno quello del suo collega italiano. Certo è solo la corrispondenza temporale ad affiancare le due vicende, non fosse che quanto accade a Caracas, i suoi precedenti e le conseguenze inquietanti hanno qualche imbarazzante corrispondenza con quanto succede da noi. Laggiù i partiti storici del paese non seppero affrontare un drammatico stato di crisi aprendo a suo tempo la via alla presidenza Chavez che non fu impedito a raggiungere il potere neppure da una condanna per un tentativo di colpo di stato. Il successore (inutile discutere se legittimo o meno, dato che i militari hanno scelto di assecondarlo) si colloca sulla sua stessa linea populista venata di un marxismo messianico inutilmente contestato dalla stessa Chiesa locale.

Da noi, dopo la caduta della prima repubblica, la memoria corta dei cittadini, ma anche dei politologi, favorisce lo svilupparsi di forme di gestione del consenso (di tipo elettronico-plebiscitario) assai improbabilmente democratiche.

La composizione del parlamento mostra che il centro sinistra, grazie ai vistosi premi di maggioranza, anche se raccoglie appena un terzo dei voti, ha qualcosa più della metà dei grandi elettori. Senza le spaccature che lo dividono potrebbe dunque decidere da solo.

Al suo interno però c’è chi guarda a Grillo, chi al centro, chi punta, senza poterlo dire, a un’intesa con il Pdl. Da destra, occorre dire, fino a questo momento, non sembra venire altra opzione politica se non quella del voto anticipato per una sorta di “giudizio di Dio” al quale affidare la speranza di ottenere una rivincita favorita magari dal sistema dei premi di maggioranza. La richiesta avanzata più volte da Berlusconi di un governo di grandi intese infatti non appare percorribile se proprio le grandi intese che hanno portato all’elezione del governo Monti sono andate a farsi benedire per le  incertezze del Pdl e l’opposizione della Lega.

D’altra parte, l’elettorato (con un suffragio mai così ampio nella storia della repubblica), ha privilegiato nettamente la sinistra nelle sue due forme: quella tradizionale dell’alleanza messa in piedi da Bersani e quella della protesta senza proposta del Movimento 5 stelle, che ha magari raccolto anche il voto di molti elettori orientati a destra, ma non c’era dubbio che l’ha gestita, come d'altra parte appariva scontato, da posizioni di sinistra.

Nel Pd però le polemiche di Renzi, le risposte dure della segreteria e l’affacciarsi nell’agone politico di Fabrizio Barca, mostrano che c’è difficoltà nel transito verso equilibri stabili. La sortita di quest’ultimo, nuova star della sinistra, in particolare, è apparsa singolare.

In tempi di banalizzazione lessicale, di richieste di parlar chiaro, di tentativi di inseguire i discorsi marcati dal semplicismo dei populisti, Barca si è rifugiato in uno slogan che fa impallidire le più sofisticate metafore morotee. Usando il termine “catoblepismo” è stato travolto dalle ironie proprio di coloro ai quali voleva ammiccare.

Noi, beninteso, non possiamo fingere di ignorare il significato del neologismo (e se non fosse stato così ci avrebbe soccorso Wikipedia). Il problema è capire perché una formula usata da un banchiere come Raffaele Mattioli, per alludere all’improprio ruolo delle banche nei salvataggi e nei finanziamenti delle imprese, sia stato usato per rappresentare il difficile approccio tra cittadini, stato e forze politiche. Direbbe Di Pietro con la sua illetterata franchezza: “che ci azzecca?”.