Le letture di Carlo Donat-Cattin |
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In via Romagnano la biblioteca di mio padre occupava, fin da quando eravamo ragazzini, un lunghissimo corridoio e poi anche il suo studio. In quella biblioteca c’era di tutto. Nella libreria bianca che si estendeva fino all’ingresso i libri di narrativa italiana e straniera in ordine alfabetico, per autore; di lato e di fronte all’ingresso i libri per ragazzi. Quando fu ricoverato all’ospedale di Alessandria, nell’agosto del 1983, il papà mi confessò che, nelle lunghe ore di silenzio e di solitudine seguite al suo infarto, aveva ripassato in silenzio tutte le poesie imparate a memoria nella sua vita sin dalla primissima infanzia come La vispa Teresa, La mela ruggine e La partenza del crociato (più noto in famiglia come ‘Il Prode Anselmo’) di cui ho di recente ritrovato in casa un’edizione illustrata del 1944 che forse era stata sua o che forse ho scovato io da un rigattiere molto tempo fa. La nonna Marisa aveva insegnato anche a me quelle poesie. Ricordo solo pochi versi della Mela ruggine che, da bambina, mi venivano detti, in tono tra l’ironico e l’affettuoso, quando stavo per mettermi a piangere: “… disse ne vuoi un po’? … si mise a mordere finché non ce ne fu / poi si asciugò le lacrime/ così non pianse più”. Sicuramente tra le poesie che il papà provò a ripetere in quelle ore di angoscia dovute alla malattia ce n’erano molte di quelle presenti nell’antologia in due volumi Poesie studiate e imparate a memoria sui banchi di scuola di una volta pubblicata da Mursia nel 1979. Tra i nomi grandi: Foscolo, Leopardi, Manzoni, Carducci, Pascoli, D’Annunzio ma anche Giovanni Visconti Venosta (autore, appunto del nostro ‘Prode Anselmo’) e Angiolo Silvio Novaro (con Che dice la pioggerellina di marzo?). La poesia, dunque, come medicina dell’anima e della mente. La poesia che salva la vita, che consola, che attutisce il dolore, che nutre e restituisce forza. Siria Non è semplice provare a dire le ragioni di questa predilezione. In primis il paesaggio ligure, quello di una Liguria scabra, essenziale e ventosa, presente soprattutto negli Ossi di seppia, doveva avergli fatto sentire una forte consonanza. Tramontana Tuttavia, questo non può bastare. C’era dell’altro. Un dato forse era dovuto allo stile e al carattere di Eugenio Montale: la sua ritrosia e il suo understatement di certo dovevano essere piaciuti a Carlo. Ma credo, soprattutto, e qui azzardo un’ipotesi, una visione del mondo e un modo di vivere il proprio tempo che sentiva vicino al suo. La mia arte poetica è stata sempre la assidua registrazione di vivere “nel nostro tempo”: un tempo che a noi oggi viventi sembra diverso da ogni altro, ed è forse un’illusione perché tempi facili non credo siano mai esistiti. Al tempo cronologico non mi sono mai del tutto rassegnato; ed è questa congenita diffidenza che mi ha tenuto lontano da ogni integrale storicismo, materialista o dialettico che sia. Se non credo all’assolutezza del tempo ho invece una fede incrollabile nelle fasi che regolano la vita dell’umanità secondo un ritmo, un decorso che sfugge tanto ai filosofi metafisici quanto ai dogmatici di qualsiasi religione. (E. Montale, Nel nostro tempo, Milano 1972, pp.7-8). Una posizione di privilegio spetta a un altro poeta ligure, Camillo Sbarbaro, per quell’amore speciale che legava Carlo al paese in cui era nato – “Il paese ciù bellu du mundu” come diceva spesso per difendere la scelta di passare tutte le estati nella sua Liguria. L’edizione mondadoriana di Trucioli 1914-1918, – frammenti di prosa poetica – , del poeta di Santa Margherita Ligure risale al 1948. Sbarbaro, però, visse a lungo a Spotorno, cui dedica queste parole : “Spotorno, terra avara. Vi imbianca l’olivo, il sorbo vi si carica di mazzetti duri […] paesaggio dell’anima; cielo che a guardarsi si beve” (pp. 25-26). E, poco più avanti (p.38), a proposito di Noli – dove sono stata spesso con il papà arrivandoci talvolta attraverso le Manie – Sbarbaro scrive, quasi a interpretare un desiderio che forse era anche di Carlo, “Mi sovviene il muretto sopra Noli dove indugiai un pomeriggio a prendere il sole. Il mare non s’udiva. Sulla spiaggia i pescatori rammendavano le reti. Mi pareva dolce finire la vita in una di quelle casette screpolate.” (p.38). Accanto a Trucioli si trova l’edizione critica, a cura di Giampiero Costa, di Resine, Libri Scheiwiller, Milano 1988; libro prezioso e raffinato. I versi di Resine, ricorda il poeta stesso, “risalgono al tempo del ginnasio e della prima liceo. Non li scrivevo; li ruminavo nelle lunghe passeggiate solitarie che da ragazzo avevo l’abitudine di fare […]. Il mio primo atto di nascita come poeta, il primo vagito, deve ancora trovarsi in qualche casa a Savona, dove finì in occasione d’un trasloco.” (pp. 11-12). E qui ritroviamo un piccolo segno a pagina 88 in una poesia intitolata L’ulivo, elemento fondamentale del paesaggio ligure e albero religioso per eccellenza. O religioso ulivo, che se il vento Ci sono poi dei libri la cui data sorprende e colpisce insieme. Primo fra tutti Lirici greci di Salvatore Quasimodo. Un’edizione con una fondamentale Introduzione di Luciano Anceschi seguita da una Nota che accenna ai tempi tragici in cui il libro venne pubblicato: “Non posso licenziare questo mio scritto senza ricordare un saggio, incompiuto e bellissimo, Intorno al modo di leggere i Greci, in cui Serra, con quei suoi modi del tutto amabili […] veniva a insinuare molte questioni sul tradurre [...] le sue osservazioni […] spesso ci confortano e ci aiutano: per un’immagine nuova della Grecia, che vada al di là delle estenuazioni classicistiche, ma anche delle inquietudini barbariche di uomini privi dei limiti civili di una buona eloquenza e educazione” . Un libro, quello di Quasimodo, acquistato e letto dal giovane Carlo che lo accompagnerà nella temperie tragica della guerra. Testimonianza indiretta di quell’attraversamento di mezza Italia, da Montefiascone a Torino, compiuto all’indomani dell’8 settembre: Se tu sapessi ciò che è da temere,
Mi sono chiesta, quindi, che cosa mio padre avesse potuto leggere durante la guerra. E la mia attenzione è caduta su due libri: un testo autobiografico e un romanzo. Il primo, Ragazzo e prime poesie di Pietro Jahier, che risale a quando era sottotenente dei granatieri a Montefiascone, porta sul frontespizio la sua firma con la data “Roma, luglio 1943”. Il secondo, La pietra lunare di Tommaso Landolfi, sull’ultima pagina ha stampato il timbro della Biblioteca del Dopolavoro aziendale Olivetti e risale al periodo della guerra successivo all’8 settembre, quando Carlo entrò a far parte della Resistenza e lavorò prima come operaio poi come professore all’Olivetti di Ivrea. Un atto mancato, la restituzione di quel libro, che parla da solo. La poesia è un miele che il poeta, Una particolare attenzione va dedicata a Carlo Betocchi, una delle voci più alte del Novecento poetico italiano. La presenza di questo poeta nella biblioteca di mio padre non deve stupire. Betocchi fu insieme costruttore di poesia e costruttore di strade, case, canali, ponti, dighe. Un uomo e un intellettuale, come l’aveva definito Carlo Bo, non facilmente collocabile all’interno di qualsivoglia corrente letteraria o scuola di pensiero e proprio per questo “interamente poeta”. Nell’Introduzione a Prime e ultimissime, - la raccolta poetica uscita nello Specchio Mondadori come le precedenti L’Estate di san Martino (1961) e Un passo, un altro passo (1967) - è sempre Bo a scrivere con fine acutezza: “il passante, il camminante Betocchi appartiene soltanto al vento della poesia e alle sue voci […] quando lo rivediamo ci capita quasi inavvertitamente di guardarlo con quell’antica gratitudine del cuore che ci aveva acceso dentro, al tempo delle prime poesie, insomma con quel sentimento antichissimo di aver ricevuto direttamente, per virtù di natura, la luce della poesia”. Una luce cui mio padre deve avere attinto più e più volte. Come testimoniano le sottolineature della poesia che trascrivo integralmente qui di seguito. Al figliolo Forse questo, il papà avrebbe voluto e non è riuscito a dire a uno dei suoi figli. O forse, semplicemente, in questi versi ha cercato e finalmente trovato un po’ di quella ‘luce’. C’è dell’altro. Questo grande lettore di poesia, aveva, durante la sua gioventù, scritto poesie. Poesie d’amore. La mamma le ha volute con sé, insieme alle lettere a lei indirizzate, ai biglietti che accompagnavano le rose rosse che immancabilmente il papà le regalava l’11 luglio, giorno del loro matrimonio: una per ogni anno. Un piccolissimo nucleo però le è sfuggito e io l’ho ritrovato. A lungo per rispettare la volontà della mamma non ho aperto il fascicoletto che lei aveva intestato così: “Poesie di Carlo ad Amelia Millino” dentro il quale aveva conservato alcuni fogli. Il primo porta in testa la scritta sottolineata “L’ombra della felicità” e in fondo la data “settembre 1939”. L’11 luglio del 1943 Carlo, a soli ventitré anni, avrebbe sposato Amelia, la “fanciulla del sogno” di cui quelle righe parlano. Varcata la soglia, compiuto l’atto di disubbidienza, ho scoperto, leggendo quelle pagine, che si tratta di prosa poetica, pensieri, qua e là qualche verso, una sorta di testo prosodico più o meno consapevole. Non riporto altro perché non vorrei che la mamma, gelosa delle parole a lei riservate, se ne avesse a male. Per lei erano poesie: “Poesie di Carlo ad Amelia Millino”, il modo in cui il papà la chiamava quando le voleva più bene, come disse una volta a Marta, la mia primogenita, che le chiedeva il perché di quel nomignolo. Quasi tutti i giovani delle vecchie generazioni hanno scritto poesie o hanno creduto di scriverle ma non sono molti quelli che, impegnati in una vita attiva e frenetica, hanno continuato a leggere poesia. Mio padre lo faceva. Non bisognerebbe mai smembrare una biblioteca, in certe situazioni ci comportiamo tutti come “figli unici” e i libri per me come per i miei fratelli hanno rappresentato, più di ogni altra cosa, nostro padre e così ognuno di noi ha voluto una parte dei suoi libri, la narrativa Claudio, i libri per i ragazzi Paolo, la poesia io, anche se la parte quantitativamente più rilevante è andata alla Fondazione a lui dedicata. Tuttavia non sempre una simile decisione, si rivela, a distanza di tempo, una decisione sbagliata. Se quei libri non fossero entrati nella mia casa romana non mi sarei mai resa conto di quale raffinato e profondo lettore di poesia fosse stato mio padre. E non avrei avuto il dono prezioso di conoscerlo meglio. I suoi libri, in particolare questi libri rappresentano per noi figli e nipoti un dono inaspettato e un modo per riscoprirlo. |